monás

La reale sostanza delle cose

8 settembre | ore 21.00 | Maddalena centro arti performative

Una creazione di Teatringestazione

// intero  € 8 | ridotto 5 €


Performance Esperienziale

Una creazione di Teatringestazione
ideazione, regia e attuazione Gesualdi | Trono
dramaturg Loretta Mesiti
 
con il sostegno delle residenze: 
IntercettAzioni Centro Residenze della Lombardia/Teatro delle Moire/Lachesi Lab – Milano; 
Artists in ResidenSì/Ateliersì – Bologna; 
Prima Onda Festival/Genìa – Palermo.

A partire da un’indagine sul pensiero di Debord, Teatringestazione indaga lo statuto dell’immagine nell’epoca della “schermocrazia”. Monàs è un’opera ibrida tra installazione partecipata, composizione coreografica e live cinema, che dà vita ad una “micro società provvisoria”, uno spazio di coesistenza. Il dispositivo scenico a cui partecipa il pubblico è concepito come un ecosistema, all’interno del quale è possibile fare esperienza del differimento del proprio corpo in immagine, per riflettere sul rapporto tra spazio reale e spazio di rappresentazione; e come in questa frattura si subisca o si pratichi un esercizio di potere.

Monàs tenta di mettere a fuoco lo statuto dell’immagine e la sua valenza politica e sociale, indagando lo scarto tra realtà e post verità, e come in questa frattura si subisca o si pratichi un esercizio di potere.

Gli spettatori “nomadi” entrano in uno spazio scenico scomposto in funzioni elementari. Essi possono scegliere spontaneamente di occupare le diverse frazioni dello spazio, abitandolo in azione, osservazione, lettura, ascolto e muovendosi liberamente tra una funzione e l’altra, sostando in una sola frazione o tornando all’occorrenza a quelle precedenti. Lo spazio è diviso in due parti da un setto/schermo, che accoglie una proiezione, la stessa su entrambi i lati. Da un lato dello schermo c’è lo spazio dell’azione, dall’altro quello della contemplazione. Dal lato dell’azione gli spettatori, in numero limitato, indossano delle cuffie, ascoltando musica techno (Turbocapitalism Continuum, Amptek), e sono di fronte ad una videocamera che cattura in tempo reale la loro figura, restituendone un’immagine trasfigurata da un software, che ne aumenta il tempo di esposizione, diminuendo il numero di fotogrammi al secondo, frammentando il movimento, fino a farne perdere la definizione e oltre, fino a far scomparire le parti del corpo. Ne deriva un’immagine dalla qualità tragica, contrapposta al movimento “dal vero” che risulta ridicolo. Dal lato della contemplazione, gli spettatori siedono di fronte alla schermo, che accoglie la proiezione di quel che accade nello spazio d’azione, mentre ascoltano l’audio del film di Debord “Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps” (1957), il cui testo è stato frammentato e ricombinato dalla funzione random di un lettore musicale. In questa opera “Debord coglie la città come metafora del mondo e ci rovescia dentro didascalie, citazioni colte, immagini di banalità ordinarie.” (Pino Bertelli 2015). Una “diserzione” d’autore.

Quando gli spettatori si trasferiscono nello spazio della contemplazione, lasciano le cuffie a disposizione di chi vorrà prendere il loro posto. Potranno poi tornare nel momento in cui una cuffia è a disposizione.

Mentre gli spettatori abitano spontaneamente lo spazio scenico, il performer, attraverso una relazione singolare ed esclusiva con il suo doppio nello schermo, lavora alla elaborazione e collezione di gesti che nutrono la composizione di un discorso ricorsivo messo in figura sullo schermo, una mise en abyme.

Il corpo del performer scrive e si inscrive tra la massa dei passanti “in una determinata unità di tempo”. Si dà vita ad una “micro società provvisoria” (Debord 1959). La danza porosa accoglie i gesti degli spettatori-partecipanti, in una reciproca interferenza, ridefinendo sullo schermo le figure, che insieme formano un panorama “antropico”: un paesaggio fatto di figure alla “deriva”, identità fittizie o copie di identità reali; volti irriconoscibili, corpi frammentati dall’apertura focale della fotocamera, presenze incompiute che di fronte allo schermo restano evocazione e rappresentazione. L’individuo concorre allo sfondo, la massa si fa eco, premonizione. “Essere” è una rincorsa alla sovrapposizione, alla cancellazione delle figure compresenti nello schermo. Sottrarsi significa eliminare la propria figura dal paesaggio, con tutto ciò che comporta. Si verifica una frammentazione dell’Io in un’infinita gamma di identità coesistenti. E quando il gioco si consuma in ripetizione appare la sostanza reale delle cose.

Monàs è concepita come un’opera ibrida tra installazione partecipata, composizione coreografica e live cinema: un’opera performatica (Mengotti 2020).

La ricerca si avvale del dispositivo spaziale e interattivo “Not Found” (b), nato da un’indagine su “la Società dello Spettacolo” (Debord, 1967). Uno spazio di azione, osservazione e contemplazione, che accoglie contemporaneamente i performer e i visitatori. Una dimensione di pubblicità e condivisione si costituisce in uno spazio disposto attorno ad uno schermo. Un elemento di separazione/trasmissione/differimento, la cui presenza separa e mette in relazione una serie di luoghi, definisce modalità asimmetriche di relazione, moltiplica le soglie fra azione e contemplazione. Questo dispositivo scenico ci offre un’occasione per esaminare le condizioni della propria presenza e il suo senso politico in uno spazio di coesistenza; un vero e proprio ecosistema, all’interno del quale è possibile ragionare sul rapporto tra spazio reale e spazio di rappresentazione.

Il dispositivo crea una eterotopia, un luogo in cui l’immagine trova la sua concretezza nella mediazione della macchina che costringe l’avventore a trovare la posizione ed il movimento che renda l’immagine significante. Il meccanismo si attua attraverso la sottrazione del movimento, così come lo intendiamo composto di istanti che segnano momenti consequenziali di un’azione, il dispositivo fluidifica il movimento creando una scia che cancella gli istanti rendendo visibili solo i momenti in cui il corpo è realmente fermo. Per esistere, per trovare una definizione dobbiamo deformare il nostro modo di muoverci o esasperare il movimento. In questo modo l’immagine si concretizza nello schermo; ma questa deformazione rende lo schermo una eterotopia, sottraendo al movimento reale il suo senso ed il suo significato. Ci troviamo quindi davanti alla scelta di esistere in un mondo oppure nell’altro poiché entrambi sono possibili solo nell’inazione, nella “posa”.

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